UNA PIAZZA DESERTA


lu picuraru -

E' UN COPIA E INCOLLA.
L'unico sforzo che dovete fare è sostituire il nome del paese.
ACQUARICA O VERNOLE.
20 gennaio 2013 – Rientrare nella mia Borgagne per il periodo natalizio tra le altre cose ha significato anche partecipare in maniera più diretta alle piacevoli e stimolanti discussioni “de paese”. In questo senso il 2012 ha regalato al piccolo borgo la nuova piazza e questo logicamente ha catalizzato il dibattere nostrano. piazza_di_borgagne_vuotaGran parte degli scambi di vedute vertono sull’estetica di questo luogo essenziale per la vita locale. A mio giudizio la piazza, tutto sommato, non si può definire “brutta”. Se, però, mi soffermo un attimo a considerarla “bella”, il concetto di bellezza mi sfugge e non si fa afferrare.
Penso che una cosa, un luogo, o una persona, per poter essere definita bella, o brutta, abbia bisogno innanzitutto di una sua personalità specifica, di una caratteristica particolare che la rende quella che è, di una soggettività tutta sua. Tale individualità, però, non si deve accontentare di “se stessa”, ma dovrà rendersi disponibile ad accogliere, o rifiutare, ciò che è “altro da sé”, cioè si dovrà aprire a un dialogo con il diverso da sé. A sua volta questa “soggettività” deve poter essere accolta ed eventualmente compresa da ciò che è “altro da sé” e in quanto tale ha bisogno di essere “non completamente diversa”, perciò riconoscibile. Ogni individualità sarà, allora, costituita da elementi comuni a sé e all’altro, in modo che l’esigenza di espressione di un qualsiasi tipo di giudizio, anche quello estetico, possa trovare dei punti di riferimento sui quali ancorarsi.
I luoghi, le storie, gli oggetti e le persone si pongono e si oppongono sempre uno di fronte altro per ammirare e farsi ammirare secondo parametri, schemi, che per tutte queste categorie, come anche per i singoli elementi che le compongono, sono in parte peculiari, unici, individuali e in parte comuni, simili e condivisi. Solo così si può spiegare come un’individualità possa comunicare con un’altra individualità e quindi realizzare una qualche forma di universalità. La soggettività e la singolarità hanno bisogno di farsi “altro da sé” per procedere verso un condiviso e un universale in grado di accogliere o rifiutare, di riconoscere o rigettare, di amare o disdegnare. Per questo il bello o il brutto, secondo me, sono la ricerca, pur nella diversità degli sguardi, di un’armonia da accettare o da respingere tra le diverse individualità di cui si compone la realtà. Un’armonia dove il soggetto e l’oggetto si riconoscono e dialogano partendo da schemi comuni.
La nostra piazza manca proprio di questo rapporto dialettico tra individualità e universalità, tra il sé e l’ “altro da sé”, che possa farsi sintesi in una qualche forma di bellezza. Essa si presenta vuota, priva di una sua soggettività e contemporaneamente avulsa nelle sue componenti da ciò che le sta intorno, priva di un legame solido con gli individui che dovrebbero viverla e con le esigenze della contemporaneità, è un sito che non dialoga con niente e con nessuno, non ascolta e non si fa ascoltare perché non ha nulla da dire, non ha una storia comune da raccontare e non ha una soggettività da farsi riconoscere. Insomma, la nostra piazza appare nata priva di un’identità chiara, perché è priva di una filosofia di fondo che le permetta di coniugare nelle giuste dosi passato e futuro, comodità e fruibilità, soggettività e universalità. Una filosofia che le consenta di assumere un tono affaristico e speculativo insieme. Una filosofia che le dia modo di essere luogo di transito e luogo di sosta, luogo di chiacchiera e luogo di commerci, luogo di dibattito e luogo di cultura. Essa appare la semplice trasposizione di un disegno architettonico dal foglio di lavoro al mondo reale.
Certo per una corretta valutazione della situazione attuale è giusto ricordare che la vitalità e la singolarità della nostra piazza sono state lentamente fiaccate già nei decenni scorsi. I continui rifacimenti, infatti, hanno coperto e reso dimentico il valore di ciò che si cela nel suo sottosuolo, hanno portato alla scomparsa delle case con i tetti ad “imbrici” che la cingevano e le facevano corona, hanno favorito il trasloco lento e irreversibile delle varie attività economiche verso altre aree e hanno affievolito il peculiare legame mitico che la rendeva quasi un tutt’uno con via 4 Novembre (la vecchia via “Pasulu”).
Indiscutibilmente “la chiazza” non è mai stata un’opera eccelsa, ma al termine degli ultimi lavori essa ha perso anche quel carattere di agorà ultimo spicchio di una sua anima peculiare. Le notizie di ogni tipo, dal pettegolezzo di paese alla politica con la “p” maiuscola, vedevano nella piazza il luogo per eccellenza della discussione e della polemica, spesso anche superflua. Nella piazza si formavano le opinioni dominanti e da qui esse si distendevano e irradiavano per tutto il paese. Essere in piazza a confrontarsi mentre si bighellonava da un angolo all’altro era sentirsi partecipi di una cittadinanza tutta borgagnese. La nuova veste ha letteralmente dato il colpo di grazia a questo luogo portando a termine il processo di trasformazione da spazio vivo e partecipato a desolato deserto pavimentato.
Proprio nella pavimentazione, almeno allo stato attuale dei lavori, si può cogliere un primo elemento chiaro ed evidente del distacco, dell’estraneazione, della separazione di questo luogo rispetto a tutto ciò che la circonda. La piazza prima era un territorio vasto che si dischiudeva e si dilatava verso le cinque vie che si aprivano a raggiera tutt’intorno. Attraverso questi percorsi la piazza compenetrava e si faceva compenetrare dal suo borgo, non esisteva un punto, una linea che la delimitasse in maniera netta, essa si fondeva con il paese e si faceva Borgagne. L’attuale pavimentazione invece delimita con margini chiari e netti come muri. Questo confine geometrico rimpicciolisce lo spazio e lo stacca dal resto. Divieti d’accesso, transenne e nuovi elementi architettonici mal posti rafforzano ulteriormente il senso di separazione del sito, attraversarli significa passare un limite tra un mondo ed un altro. Il risultato è che ora questa area si mostra vuota e non più partecipata come se ad vivente fosse stato estirpato lo stesso spirito vitale.
Penso, infine, che proprio i monumenti inseriti in piazza con il compito di abbellirla e riconoscerle una storia richiamando un suo passato, siano una causa ulteriore del senso di alienazione che affiora nella valutazione estetica. Comunque l’analisi di questo aspetto del dibattito necessita di un approfondimento ulteriore perché qui il momento estetico si interseca con la funzionalità e la razionalità del luogo.
Gaetano Nocco

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